Digitalizzare un processo significa per il personale aziendale imparare metodi nuovi e accettare ruoli diversi, una novità che spesso suscita timori e resistenza. Per questo, i CIO concordano: il costo maggiore della digital transformation è nella formazione, nel change management e nell’accompagnamento dei colleghi. Il CIO deve farsi sponsor convinto del cambiamento e prevedere un’intensa attività di assistenza e project management.

Per i CIO non ci sono dubbi: il vero costo della trasformazione digitale si misura in attività di formazione e change management. I direttori dell’IT sottolineano spesso che le persone sono resistenti al cambiamento, tanto più quando i “clienti” finali – ovvero i colleghi non IT – sono professionisti poco avvezzi all’uso della tecnologia; per esempio, un infermiere in una clinica, un docente all’università o un addetto alla manutenzione degli impianti per una utility. Non sempre si è pronti a trasformare il proprio lavoro con gli strumenti informatici e passare da un vecchio a un nuovo sistema gestionale può mandare in crisi il personale. Le aziende rispondono conducendo attività di formazione e affiancamento e il change management diventa il costo principale – in tempo e denaro – della trasformazione digitale.
“Il CIO fronteggia sempre gli stessi problemi quando deve attuare un progetto strategico: non ci sono mai persone a sufficienza, le competenze di business sono sempre scarse, manca la visione di insieme e c’è una fortissima resistenza al cambiamento”, nota il CIO Fabio Mattaboni. “In tutte le mie esperienze ho visto ripetersi la stessa storia: a pochi mesi dall’avvio del progetto di digitalizzazione, scatta il terrore. Ed è qui che si distingue il Chief Information Officer che ha una competenza distintiva nel gestire le paure da chi non è in grado di intervenire fattivamente”.
“Le due difficoltà maggiori nel lavoro di un CIO sono due: quando l’IT è visto solo come operativo, e non come strategico, e quando bisogna spiegare perché bisogna cambiare qualcosa o investire in innovazione”, afferma Thomas De Pace, Chief Information Officer di Stahl (prodotti chimici ausiliari per le industrie tessili e del cuoio). “La risposta che mi sono sentito ripetere tante volte è: abbiamo sempre fatto così e funziona…”.
Il primo costo della trasformazione digitale è il change management
I dati relativi al 2024 dell’Osservatorio Assochange sul Change Management in Italia, realizzato in collaborazione con il Politecnico di Milano, confermano che la prima spinta a condurre attività di change management in azienda è la trasformazione digitale, al pari con l’innovazione tecnologica (53%). Tra le principali sfide di una gestione efficace dell’innovazione digitale spicca la necessità di convincere la popolazione aziendale dell’utilità del progetto e ottenere una partecipazione attiva.
“Per raggiungere tale obiettivo, le grandi imprese ricorrono in modo diffuso ad azioni di Corporate Entrepreneurship, per sviluppare la cultura dell’innovazione e lo spirito imprenditoriale, per esempio formazione, incontro con startup e cambiamento degli stili di leadership”, afferma Alessandra Luksch, Direttore Osservatori Startup Thinking, Digital Transformation Academy, Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano. “Il 71% delle imprese intervistate dall’Osservatorio Startup Thinking nel 2024 già le sta adottando. Questo può portare anche alla nascita, sviluppo o identificazione dei cosiddetti ‘Intrapreneur’, persone interne all’azienda che dimostrano di saper agire con una mentalità imprenditoriale tipica del mondo delle startup, agendo anche da stimolo e punto di riferimento per gli altri colleghi”.
Un dato interessante registrato dalla ricerca del 2024 è il ruolo che la Generative AI sta giocando per il change management nelle imprese. Il 31% delle grandi organizzazioni riconosce che l’intelligenza artificiale contribuisce a contrastare la resistenza interna al cambiamento perché favorisce una maggiore propensione verso l’innovazione tra i dipendenti.
“Questo dato fa emergere come la diffusione e l’adozione di soluzioni di AI, e in particolare di GenAI, sia spesso uno stimolo che parte prima dalle persone e porta poi le organizzazioni a reagire cercando di definire gli strumenti più adeguati e sicuri”, evidenzia Luksch.
La curva di apprendimento e la trasformazione culturale
Certamente un progetto di digitalizzazione richiede di cambiare dei prodotti o delle soluzionitecnologiche, ma questa è solo la parte evidente della trasformazione, nota Igor Dimitri, IT Manager di UPS Italia. I veri costi sono nel tempo da dedicare alla trasformazione culturale.
“La maggior parte dei costi non sono costi IT, perché la trasformazione digitale non è un progetto IT”, afferma Dimitri. “C’è il costo del cambiamento culturale delle persone che dovranno adottare le nuove tecnologie ed è lì che è richiesto lo sforzo aziendale maggiore”.
Dimitri evidenzia, tra gli altri, i “costi legati alla curva di apprendimento”. All’inizio la maggior parte delle persone, come è naturale, sono riluttanti al cambiamento e sono inefficienti nell’utilizzo di una nuova tecnologia. Spesso il CIO si sente obiettare: “Il sistema vecchio era molto meglio”. Perciò è importante che l’azienda mantenga salda nel lungo periodo la sua decisione strategica: l’efficienza aumenta giorno dopo giorno.
“La trasformazione culturale è la parte più rilevante e dispendiosa della trasformazione digitale, perché è indispensabile portare a bordo tutta l’azienda, che è fatta di persone”, evidenzia Dimitri. “Bisogna raccontare i motivi del progetto, condividere la visione del futuro e spiegare che non esiste l’azienda senza le sue persone. Le tecnologie a volte possono spaventare, perché non le si conosce e anche perché siamo immersi nella ‘cultura dell’allarmismo’. Ma il ruolo del management è quello di rassicurare che l’obiettivo è quello di fare di più e meglio e che le persone hanno e sempre avranno un ruolo centrale in qualunque organizzazione”.
I costi nascosti e come evitarli
Secondo Nabil Moussli, Technology Strategist di Accenture, ci sono dei veri “costi nascosti” della trasformazione digitale e sono quasi tutti legati alla trasformazione culturale. Il primo, infatti, è la formazione a tutto campo: non basta un corso di qualche ora o un’interfaccia intuitiva: i dipendenti non devono solo imparare a usare un nuovo strumento, ma adottare nuovi modi di pensare. La formazione non deve essere una tantum, ma un impegno continuo.
Il secondo costo nascosto (ma i nostri CIO ne sono molto consapevoli) è il change management: senza un approccio strutturato al cambiamento, anche i migliori strumenti tecnologici falliscono. La resistenza si manifesta in modo sottile: ritardi, inadempienze passive o un ritorno silenzioso ai vecchi processi. Il cambiamento, perciò, deve essere guidato, comunicato e coltivato. Saltare questo passaggio è uno degli errori più costosi che un’azienda possa commettere in termini di valore non realizzato.
Il terzo costo nascosto? È anche questo non IT: il cambiamento culturale. Le organizzazioni devono coltivare una mentalità che abbracci la sperimentazione, tolleri il fallimento e valorizzi l’apprendimento continuo. Questo spesso richiede di disimparare le abitudini consolidate e uscire dalla comfort zone dell’”abbiamo sempre fatto così”.
Ci sono altri costi impliciti da mettere in conto. Per esempio, lo stress nell’apprendere un nuovo sistema e l’impatto sul morale delle persone. Se non gestita con empatia, la trasformazione digitale può portare a burnout e confusione.
Altro elemento chiave è il supporto continuo: la trasformazione non termina col go-live, ma occorre, soprattutto all’inizio, una fase di “iper-assistenza”, ovvero un supporto dedicato per le settimane successive a un’implementazione importante.
C’è poi il costo nascosto della ristrutturazione organizzativa, che significa evoluzione dei ruoli. Gli strumenti digitali spesso modificano i flussi di lavoro e, di conseguenza, le responsabilità. Alcuni ruoli potrebbero diventare obsoleti. Altri potrebbero richiedere competenze completamente nuove. E questo significa ripensare organigrammi, strutture dei team e metriche delle prestazioni.
Infine, i costi nascosti tecnologici, perché sì, ci sono anche questi. Middleware per connettere sistemi diversi, consulenti assunti a metà percorso, costi di licenza che aumentano più velocemente del previsto, tempi di inattività durante gli aggiornamenti, e altri ancora: l’elenco è lungo e in gran parte invisibile all’inizio. Ma un’approfondita analisi iniziale può evitare molte di queste spese extra.
Il costo tecnologico: l’eccezione delle startup
Se per la grande maggioranza dei CIO il costo della trasformazione digitale è innanzitutto culturale, e non tecnologico, il quadro è totalmente ribaltato nelle startup. Queste società hanno la digitalizzazione alle loro fondamenta e “si occupano di trasformare digitalmente le altre imprese, più che loro stesse”, come sottolinea Lorenzo Ye, CIO & Head of Tech di Takyon, startup del travel tech che ha dato vita al primo network decentralizzato delle prenotazioni dirette con cui i viaggiatori possono cercare e prenotare dai siti ufficiali delle strutture ricettive. ”Per noi, il costo della digitalizzazione è tecnologico, perché dobbiamo essere sempre aggiornati sulle novità. Il rischio è di non essere sempre all’avanguardia e diventare presto obsoleti”, sottolinea Ye.
Infatti, nelle startup il debito tecnologico può formarsi più velocemente rispetto alle imprese tradizionali e produrre impatti più pesanti sulla crescita dell’attività. “L’accumulo di debito tecnico è un rischio nascosto e una delle problematiche maggiori per una startup”, afferma Ye. “Noi siamo veloci nell’aggiornamento tecnologico, perché il codice che scriviamo si deve adattare ai cambiamenti del nostro business. Se non riusciamo a tenere le componenti software allo stato dell’arte rischiamo ripercussioni su tutta la nostra piattaforma. Perché noi siamo, appunto, una piattaforma tecnologica che deve costantemente trovare la chiave migliore per dialogare con siti già esistenti”.
Di contro, le startup che si rivolgono a clienti che sono aziende “tradizionali” spesso osservano come la trasformazione digitale sia un percorso lungo e complesso.
“Anche se hanno tecnologie vecchie, queste aziende tendono a restare ancorate al sistema obsoleto per abitudine”, osserva Ye. “Decisamente la trasformazione digitale richiede un cambiamento culturale”.
La strategia dei CIO italiani
Come procedere nel concreto, dunque? Secondo Dimitri, bisogna, innanzitutto, sradicare la paura di perdere il lavoro. Una strategia che il manager usa è chiedere alle persone: “Non vi annoiate a svolgere un lavoro ripetitivo? La tecnologia elimina questi compiti senza valore”.
“Le aziende sono piene di processi cristallizzati che vanno avanti in modo inefficiente solo perché si è sempre fatto così”, nota Dimitri.
Francesco Ciocia, Head of IT and Digital Transformation di Ca’ Zampa (servizi veterinari), ha previsto quella che Accenture definisce iper-assistenza: una persona del suo team si occupa principalmente di rispondere a richieste, telefonate e ticket, accompagnando nel cambiamento oltre 1.000 utenti interni, tra personale veterinario e amministrativo.
“Si tratta di un processo continuo”, ribadisce Ciocia. “Per questo il costo maggiore della trasformazione digitale è rappresentato dal tempo e dall’impegno che occorre mettere nel far comprendere motivi e scopi dell’adozione di una tecnologia”.
Per facilitare il percorso di apprendimento, Ciocia e il suo team hanno anche realizzato mini guide digitali facilmente stampabili, con indicazioni procedurali, affiancate da brevi video training, pensati anche per agevolare la formazione offline.
Un’altra strategia che i CIO adottano è di rendersi sponsor attivi del cambiamento, in modo da calarlo nella realtà aziendale.
“La trasformazione digitale può davvero realizzarsi solo se la direzione aziendale (tutta) pubblicizza attivamente il cambiamento e dimostra di crederci profondamente, diventando così un motore fondamentale per il successo del progetto”, sottolinea Ciocia.
PMO, un raccordo IT-business da non sottovalutare
“La vera digital transformation è nella testa delle persone e del management”, ci ha detto un altro CIO attualmente impegnato proprio in un progetto di trasformazione digitale. “L’IT è sempre pronto al cambiamento e la tecnologia c’è, ma bisogna che le persone capiscano a che cosa serve la trasformazione, a cominciare dal CEO e, a cascata, proseguendo con tutta la popolazione aziendale. Altrimenti il Chief Information Offcer si ritroverà a lottare contro i mulini a vento”.
E poi c’è la formazione dei project manager: un altro costo nascosto ma necessario della trasformazione digitale. I PM, infatti, devono coordinare i progetti e mantenerne la coerenza. Inserire una chat, andare sul cloud, introdurre l’AI: qualunque iniziativa di digitalizzazione è, in definitiva, un progetto che mette in comunicazione continua l’IT con le altre funzioni e i project manager agiscono da raccordo. Per questo diversi CIO stanno formando i PM (persone non IT ma con competenze a metà strada tra IT e business) o addirittura chiedono l’istituzione di veri e propri PMO (Project Management Office), considerati indispensabili per un cambiamento strutturato e governato.